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venerdì 3 dicembre 2010

Gudea: un re statuario...

Per inaugurare questa seconda fase delle vita del blog dopo una lunga pausa - pausa più che giustificata, provate voi a mandare avanti un blog in mezzo a scatoloni, polvere e operai al lavoro - ho scelto di dedicare un post al sovrano mesopotamico che vanta il maggior numero di ritratti statuari, ventisette per la precisione. Certo, riassumere la figura di Gudea col semplice titolo di sovrano più "fotogenico" della millenaria storia mesopotamiaca sarebbe piuttosto ingeneroso, perché Gudea è stato ben altro. Tuttavia proprio per le sue statue Gudea viene ricordato e ammirato, magari senza sapere bene chi sia, in tutti i libri scolastici. Ma partiamo dall'inizio. Lagash, città della bassa Mesopotamia, non lontano dagli importanti centri di Uruk e Ur, non può certo essere annoverata tra i più importanti centri urbani sumerici; tuttavia è stata il palcoscenico di due significative dinastie che vantano nelle proprie fila celebratissimi sovrani quali Eannatum (il committente della Stele degli Avvoltoi) ed Entemena. E' ricordata, oltre per essere il luogo di ritrovamento delle statue (il nome attuale è Telloh), principalmente per la prima guerra documentata della storia, quella che la vide opposta, per una questione di confini, all'altra città sumerica posta in prossimità della confluenza dei due fiumi, Umma. Gudea fu sovrano della seconda delle due dinastie; fu amministratore saggio, ottimo diplomatico e uomo devoto al dio cittadino. Ed è proprio l'edificazione dell' E-ninnu, il tempio lagashita dimora del dio Ningirsu, che ha dato l'occasione a Gudea di rendere immortale il suo nome e la sua effigie. La costruzione o ristrutturazione di un tempio rappresentava motivo di orgoglio e di vanto per le classi dirigenti sumeriche esattamente come la costruzione delle grandi cattedrali dava lustro alle opulenti signorie rinascimentali. Con la ricostruzione dell'Eninnu Gudea affermava e certificava ad un tempo il suo potere e la sua ricchezza; perché la costruzione di un tempio tanto importante significava avere una solida situazione economica e una rete commerciale tanto ramificata da far giungere sino al limitare del golfo persico materiali esotici e prestigiosi. Preziose informazioni sull'influenza commerciale di Lagash provengono oltre che dalle già citate statue di Gudea (esse stesse in diorite, prodotto importato da Magan, l'attuale Oman), da due cilindri cuneiformi (oggi conservati al Louvre insieme alla grande maggioranza delle statue) nei quali il sovrano cita la provenienza dei materiali edili impiegati nell'edificazione del tempio: [...] nell'Amano, il paese dei cedri, egli raccolse dei cedri della lunghezza di 30 metri, dei cedri della lunghezza di 25 metri, [dei tronchi] di noce della lunghezza di 12,50 metri e li fece discendere dal loro paese [per via fluviale]. [...] da Umanum situato nel paese di Menua e da Basalla nel paese degli Amorrei, fece discendere grandi pietre [...] da Tidanum [situato nel] paese degli Amorrei, importò alabastro in blocchi [...] da Kaladag nel paese di Kimash fece entrare rame [...] dal paese di Meluhha fece venire su ebano [...] dal paese di Khakhum fece discendere oro grezzo [...] da Gubin fece venire giù quercie [...] da Madga fece discendere bitume e dal paese di Barme fece discendere argilla rossa.
Non sempre è facile identificare con esattezza la collocazione geografica di questi toponimi antichi; tuttavia sembra certo che l'elenco comprenda località poste in Turchia, Libano, Siria e addirittura Iran e India. Nel suo complesso, il reperimento di materiali per la costruzione dell'Eninnu delinea i contorni di un sistema commerciale estremamente sviluppato. C'è spazio anche per la poesia e la suggestione nel racconto della costruzione del tempio. Molto bella la parte in cui si racconta come la volontà divina si manifestò agli occhi di Gudea: Gudea vide, in quel giorno, in sogno, il suo Re, (cioè) il signore Ningirsu, (il quale) gli comandò di costruirgli la casa: gli fece contemplare l'Eninnu dai destini grandiosi. I volere del dio, quindi, si manifesta attraverso il sogno che, per essere inteso correttamente, necessita di un interprete che ne colga il significato nascosto. Per questo Gudea si rivolge ad una dea, Nanshe, sorella di Ningirsu. Ed ecco la descrizione del sogno che egli le fece: In un mio sogno ho visto un uomo la cui statura era come quella del cielo, come quella della terra. Quell'essere, per il capo pareva un dio, per i fianchi pareva Imdugud, per la parte inferiore pareva la piena, a destra e a sinistra gli stava un leone accovacciato. Egli mi comandò di costruirgli la casa. Ma io non ne ho inteso il pieno significato. Poi un sole spuntò per me all'orizzonte: si trattava di una figura femminile, chi era?, chi non era? Sul capo le sporgeva un'acconciatura adatta, in una mano teneva uno stilo d'argento, sulla tavoletta erano disegnate le "stelle del cielo buono". Essa era meditabonda. Vi era un secondo personaggio, con il braccio piegato teneva una tavoletta di lapislazzuli su cui disegnava il piano d'un tempio. Davanti a me collocò un corbello sacro, allestì una forma sacra e dentro la forma pose per me il "mattone del destino". Davanti a me stava un cespuglio al naturale e gli uccelli vi trascorrevano i giorni (mentre) un giovane giumento a destra del mio Re raspava il terreno verso di me. Il responso delle dea svela il significato allegorico delle immagini descritte da Gudea: la creatura ibrida, splendida e terribile allo stesso tempo, è Ningirsu stesso che palesa il suo volere. La dea pensosa era Nidaba/Nisaba, dea legata al mondo della conoscenza e dell'abbondanza delle messi, che sembra consultare la posizione delle stelle in merito all'impresa che Gudea dovrà compiere; il personaggio con la tavoletta di lapislazzuli era il dio Nimdub che indica misure e materiali per la costruzione; il nido di uccelli nel cespuglio era un invito a non perdere tempo mentre l'asino era Gudea stesso che doveva scavare le fondamenta del tempio.

domenica 17 ottobre 2010

1000 visite


Grazie a tutti coloro che per voglia o per caso hanno visitato queste pagine. A breve spero di riprendere a postare.
Commenti e consigli sono estremamente graditi.

lunedì 31 maggio 2010

Ma quale Eden?


Tutti quanti conosciamo la storia di Adamo ed Eva nel libro della Genesi dell'Antico Testamento. Dopo sei giorni di duro lavoro Dio creò l'uomo, Adamo, e da una sua costola (in altro luogo discuteremo anche di questo) plasmò la sua compagna, Eva. Infine Dio collocò i due progenitori dell'umanità nel giardino dell'Eden, conosciuto anche con il nome di Paradiso Terrestre, nel quale la prima coppia avrebbe potuto vivere per l'eternità senza affanni: frutta, animali, beni di ogni tipo erano offerti loro spontaneamente dal quel luogo incantato, senza bisogno di lavorare la terra o allevare bestiame. Poi le cose, lo sappiamo bene, presero una brutta piega, e da allora l'umanità conobbe fatica, dolore ed un'esistenza precaria.
Ricordo bene quando il prof. Conti, docente di Assiriologia presso l'Università degli studi di Firenze, spiegò a me e ai miei colleghi di corso l'origine di quella parola tanto affascinante, capace di suscitare in tutti noi un sentimento di profonda nostalgia per uno stato di benessere perduto per sempre. La parola Eden trova il suo quasi inalterato corrispettivo nel sumerico EDIN/EDEN che indica la steppa sconfinata ai margini delle terre coltivate di Sumer.
L'etimologia sumerica del termine Eden ci restituisce un messaggio di straordinaria potenza: il ricordo atavico - e probabilmente non del tutto consapevole - di un'epoca in cui l'uomo era libero dalla schiavitù del lavoro e dei vincoli sociali, in cui era sufficiente allungare la mano per ottenere tutto quello che la terra ci offriva spontaneamente. Frutti selvatici, cacciagione, acqua dai fiumi e dalla pioggia erano generosamente offerti dall'ambiente senza bisogno di coltivare, allevare o scavare pozzi. L'Eden è, in definitiva, la rappresentazione stereotipata - e certamente idealizzata - dello stile di vita mesolitico, quando l'uomo, pur nell'estrema precarietà della sua esistenza, viveva nel mondo con la stessa leggerezza e semplicità degli altri esseri viventi. Precario sì, ma profondamente libero.

martedì 11 maggio 2010

L'Epopea di Gilgamesh 1. Introduzione


Troverei assurdo e offensivo riassumere in un solo post la più grande opera letteraria che il mondo vicinorientale abbia prodotto; l’epopea di Gilgamesh sta al Vicinoriente come l’Iliade e l’Odissea stanno al mondo classico; vietato trattarla con leggerezza. Pertanto ho deciso di dedicare a quest’ opera una rubrica a parte che cercherò di aggiornare con una certa frequenza (non voglio mortificare la curiosità di chi è interessato con lunghe attese) analizzando i diversi temi che la attraversano: personaggi, riferimenti culturali e religiosi, chiavi di lettura e interpretazioni varie.

Innanzitutto è necessario chiarire che l’epopea, per come la conosciamo, non è un prodotto direttamente ascrivibile all’epoca sumerica come personaggi e ambientazioni lascerebbero immaginare; nella sua versione finale e completa l’epopea consta di dodici tavolette e la sua stesura finale sembra debba essere fatta risalire alla fase finale dell’epoca mediobabilonese (XII-XI sec. a.C.). Infatti lo studio sistematico di versioni poste in comparazione ha dimostrato che il testo finale non è altro che l’integrazione e la rielaborazione di episodi isolati, questi sì di epoca sumerica (III millennio a.C.), riconducibili tutti alle gesta di un unico eroe: re Gilgamesh di Uruk.

Allo stato attuale delle conoscenze non è possibile affermare con sicurezza se questo personaggio sia realmente esistito; a parte le testimonianze epigrafiche di carattere letterario non si hanno documenti ufficiali che ne attestino inconfutabilmente l’esistenza. L’unica testimonianza tangibile riferibile a questo sovrano sono le poderose mura della città di Uruk che, secondo la tradizione, sarebbero state erette proprio durante il regno di Gilgamesh. Tuttavia un resto archeologico di per sé non può confermare una tradizione senza il supporto di un dato epigrafico incrociabile che la verifichi. Che sia esistito o meno Gilgamesh (da leggere con la G dura: Ghilgamesh), egli costituisce una figura cardine nell'immaginario di tutto il Vicinoriente antico: tavolette cuneiformi contenenti brani dell’epopea sono stati rinvenuti persino in Siria, Palestina ed Anatolia, a testimonianza della statura internazionale del personaggio e del racconto delle sue gesta.

Nel prossimo post tratteremo la genesi del testo, dalle origini sumeriche alla versione definitiva di epoca neoassira.


domenica 25 aprile 2010

Alzarsi con il piede sbagliato


Vi è mai capitato di iniziare una giornata con la piena consapevolezza che tutto, quel giorno, vi sarebbe andato storto? Generalmente per definire questa situazione usiamo la celebre e inflazionatissima espressione "alzarsi con il piede sbagliato". Non so dirvi quando questo modo di dire si sia affermato nella lingua italiana, quel che è certo è che gli stessi ittiti conoscevano molto bene il medesimo concetto. Tra lo sterminato numero di testi rinvenuti nell'antica capitale ittita, presso l'attuale villaggio di Bogazkoy, ve ne sono alcuni che trattano il mito del dio scomparso. In realtà i testi mugawar (o mugessar) non sono dedicati ad un do in particolare, ma ad una serie di dèi che, di volta in volta, scomparivano - ovvero abbandonavano il loro posto nell'ordine cosmico - provocando di riflesso un grave dissesto nel mondo degli uomini. Il più famoso e meglio conservato di questi miti è quello dedicato al dio Telipinu, il dio della fertilità e della rinascita primaverile.
In questi testi non si chiarisce mai il motivo per cui il dio si adiri e scompaia, ma si insiste molto nella descrizione della sua arrabbiatura. Riporto un brano in traduzione tratto dal mito della scomparsa di Telipinu:
[..] si mise la scarpa destra al piede sinistro e la scarpa sinistra al piede destro. [..]
Ho sempre trovato consolante il fatto che anche un dio, in fondo, possa alzarsi con il piede sbagliato e rimanere tutto il giorno con il giramento di palle.

domenica 21 marzo 2010

Ebla, la città bianca


La riscoperta del vicino oriente antico è avvenuta nel corso del XIX secolo ad opera di inglesi, francesi e, in seconda battuta, tedeschi. Il contributo dell'Italia è stato indubbiamente minore, lo testimoniano la qualità delle collezioni conservate nei diversi musei nazionali (Louvre e British museum in primis). Non che i Savoia fossero indifferenti al fascino delle antichità esotiche: semplicemente preferivano di gran lunga l'incomparabile monumentalità dell'Egitto. Non a caso il museo egizio di Torino è, al mondo, il secondo per importanza dopo quello del Cairo.
Diciamolo pure: l'Italia in medioriente è arrivata oltre tempo massimo. Ciò non toglie che, a partire dagli anni sessanta, il nostro paese si sia impegnato con alcune missioni archeologiche in medioriente.
Una in particolare ha rappresentato la svolta e il salto di qualità del nostro settore scientifico in questo ambito di ricerca.
Tell Mardick, nella Siria nordoccidentale, ha sempre suscitato grande curiosità nei ricercatori che lo visitavano. Il perché è presto detto: si tratta di un tell dalla forma circolare e di notevoli dimensioni, quasi 200 m di diametro, circondato da un poderoso terrapieno di forma ovale. Il terrapieno misura circa tre chilometri e nei punti più alti supera i quindici metri d'altezza.
Nessuno negava il fatto che si dovesse trattare di un centro di notevole importanza, ma l'identificazione di un tell con una città (nota o meno dalle fonti epigrafiche di tutto il vicinoriente) non poteva avvenire fino al ritrovamento di un prova documentale. Talvolta può bastare un'iscrizione in situ a fornirci il toponimo, ma in casi di dubbia localizzazione originale del reperto si rende necessario il ritrovamento dell'archivio cuneiforme.
Sono occorsi più di dieci anni di scavi per venire a capo dell'enigma di Tell Mardick; dieci anni di significative conferme sull'importanza del centro, prima tra tutte l'esistenza di un "palazzo monumentale" che indicava con certezza l'esistenza di una classe dirigente organizzata e ricca.
Tuttavia non mancavano le ipotesi di identificazione: tra le tante la più ambiziosa era certamente quella che individuava in Tell Mardick il luogo dove sorgeva la città di Ebla, un toponimo notissimo, diffuso in tutto il medioriente. Le fonti epigrafiche descrivevano Ebla come una città ricca e potente, centro di una rete commerciale che andava dall'Anatolia alla Mesopotamia. La comunità scientifica internazionale non nascose il proprio scetticismo verso un'identificazione tanto ambiziosa: sembrava quasi che questi italiani, gli "ultimi arrivati" nella corsa alla riscoperta del Vicino Oriente, si affidassero al sensazionalismo per nobilitare la propria posizione. Fu nel 1975 che le fatiche della missione archeologica italiana in Siria, guidata dal prof. Paolo Matthiae, vennero premiate con il ritrovamento, in un ambiente del cosiddetto Palazzo G, di un vastissimo archivio cuneiforme.
Le prime sommarie analisi testuali misero subito in evidenza come la lingua fosse del tutto originale (a differenza della grafia che era la stessa usata nel III millennio in Mesopotamia).
L'importanza del ritrovamento non consisteva solo nella conferma dell'identificazione di Tell Mardick con Ebla, ma soprattutto nel ritrovamento, per la prima volta, di un archivio cuneiforme risalente al III millennio in Siria.
Dopo oltre quaranta anni di scavi e di studi si conoscono molti aspetti della storia eblaita. Le informazioni provenienti dallo studio dell'archivio cuneiforme ci hanno restituito l'immagine di una città fulcro di un impero commerciale capace di raggiungere non solo il medioriente ma addirittura l'Egitto e l'Afghanistan.
La conquista della città, da parte di Naramsin nel III millennio e di Murshili nel II, fu impresa degna di entrare negli annali di questi illustri sovrani.

Ci sono stato ad Ebla, era il 2001. Ero in compagnia di alcuni miei compagni d'università che ho perso ormai di vista. Magari un giorno li rincontrerò.
Era ormai tardo pomeriggio ma la luce pomeridiana non mi impedì di rimanere impressionato dal biancore del terreno e delle rocce calcaree. L'etimo stesso del nome della città sembra derivare proprio da questa particolarità del terreno (* 'abl => "rocce bianche").
L'area già scavata è stata restaurata in senso conservativo e trasformata in parco archeologico. Mentre visitavamo il sito ci siamo accorti che il terreno che calpestavamo era pieno di frammenti minuti di ceramica antica; pezzi di storia quotidiana persi nello scorrere del tempo. E io li calpestavo. Tutt'intorno ragazzini del luogo che tentavano di venderci frammenti di qualcosa che avevano trovato gironzolando per gli scavi.
Poi il sole iniziò davvero ad abbandonarci e in compenso si alzò un vento forte e caldo; per tutta la piana si alzavano nuvole di polvere bianca che, alla luce tarda del giorno, sembravano rossastre.
La notte ho dormito ad Aleppo, preso il famoso Hotel Baron, quello di Lawrence d'Arabia e Agata Christie. Dopo la doccia sono sceso al bar dell'Hotel e ho sorseggiato un whisky tra una sigaretta e l'altra.
Avevo visto Ebla, ne avevo respirato il vento del meriggio e avevo camminato sui sui frammenti.

giovedì 11 marzo 2010

La presa di Babilonia


Esiste una città nel vicino oriente che tutti conoscono e che immediatamente richiama alla mente scenari esotici di eccezionale suggestione: Babilonia (in accadico Bab-ilum, "Porta degli dèi").
Si tratta senza dubbio del centro urbano più noto e glorioso della storia del vicino oriente antico ma, contrariamente a quello che la maggior parte delle persone possono credere, solo in determinate e limitate fasi della sua storia fu sede di un grande potere politico e militare.
Le origini del centro abitato sono ancora ignote, ma è ormai appurato che Babilonia assunse una dimensione realmente "urbana" solo a partire dal 19° secolo a.C.; prima di questa data, che coincide con l'avvento di Hammurabi e della dinastia amorrea, il toponimo di Babilonia non trova riscontri significativi né nella documentazione epigrafica, né in quella archeologica.
All'inizio del II millenio a.C. raccolse idealmente la tradizione culturale sud-mesopotamica delle gloriose città sumeriche (Ur, Uruk, Eridu su tutte) in contrapposizione all'altra nuova potenza emergente, quella assira, sviluppatasi a nord.
Fu centro religioso importantissimo, sede del culto del dio Marduk, una vera "star" internazionale, non solo a livello mesopotamico, ma in tutto il medioriente.
Ed è a Marduk, o meglio alla sua statua, che è legata la storia di oggi.
Siamo alla fine del 17° secolo a.C. e una nuova potenza militare si stava affermando nel lontano altopiano anatolico. Gente nuova - venuta dalle sconfinate steppe russe, parlanti lingue nuove e incomprensibili - si era affacciata nella penisola anatolica tra la fine del III e l'inzio del II millenio a.C..
Ci vollero alcuni secoli prima che questa etnia, numericamente inferiore, si affermasse sul sostrato khattico e prendesse il controllo del potere come classe dirigente.
La prima a parlarne - chiamandoli Etei - è stata la Bibbia e, per molto tempo, si è dubitato della loro stessa esistenza. Oggi sono noti con il nome di Ittiti.
Fu un popolo socialmente poco coeso (caratteristica che ne ha limitato fortemente il potenziale) ma fortemente incline alla guerra. Balzò all'attenzione del mondo (di allora) per un'impresa compiuta dal secondo (e forse più glorioso) re della loro dinastia: Murshili I.
Dettaglieremo più avanti la storia di questo personaggio. Anticipo solo che fu, di gran lunga, il più "vincente" tra i sovrani ittiti. Molte sono le imprese militari che ha compiuto nella sua breve esistenza, prima tra tutte la presa di Babilonia.
Armatevi di una carta del medioriente, puntate l'indice su Ankara e il pollice su Baghdad. Questa è la distanza che Murshili coprì con un esercito di svariate centinaia di uomini: all'incirca duemila km. Se l'impresa vi pare poco significativa, dovete immaginare che all'epoca non esistevano strade, e le "rotte" - fossero esse commerciali o militari - erano sempre meno certe mano a mano che ci si allontanava da "casa". Nel frattempo, mentre si tentava di raggiungere la destinazione finale, era estremamente probabile cadere in imboscate tese da eserciti ostili che, tra l'altro, si avvantaggiavano della conoscenza del territorio.
Murshili non solo raggiunse Babilonia tutto intero, ma riuscì anche a predarla; non si trattò infatti di un'effettiva conquista: quella degli ittiti fu una vera scorreria che vantò loro un bottino di guerra ricchissimo, degno della più ricca delle città.
Ma non furono né ori né pietre preziose a rendere eterne le gesta di Murshili, ma il furto di qualcosa di ancora più prezioso e sacro: la statua di Marduk.
Le truppe ittite entrarono nell'E-sagila e ne profanarono il sancta sanctorum, laddove era custodita la statua del dio. La asportarono dalla sua sede e la esposero alla luce del sole, suscitando l'orrore dei cittadini; l'immagine del dio rappresentata nella pietra era, per i fedeli di allora, il dio stesso e la sua visone era ad un tempo sublime e terribile.
La statua infine venne condotta fuori dalla città per poi essere abbandonata lungo il percorso di ritorno a casa, forse a causa di un attacco da parte di un esercito nemico.
Il gesto, ovviamente, venne deprecato a livello internazionale e Murshili può essere tranquillamente annoverato tra i "maledetti" della storia del vicino oriente antico; tant'è vero che la tradizione letteraria voleva che su Murshili fosse caduta una maledizione mortale. E forse un fondo di verità c'è dal momento che, poco dopo il rimpatrio, Murshili cadde vittima di un attentato del vile Kantili che gli successe sul trono. In alto a sinistra l'immagina del dio Marduk sul drago Mashusshu.

mercoledì 10 marzo 2010

Sargon, il re della battaglia


La millenaria storia mesopotamica ha visto sorgere, regnare e cadere un numero pressoché incalcolabile di sovrani, piccoli e grandi. Lo testimoniano i lunghi elenchi di re, le cosiddette liste reali, che gli scribi di ogni epoca si preoccupavano di mantenere e aggiornare in omaggio alla memoria del concetto stesso di regalità, al quale erano associati quello di giustizia sociale e mantenimento dell'ordine contro il caos. I re erano la speranza e la testimonianza vivente che il mondo era "ordinato" e tutto procedeva nella maniera dovuta. Alcuni di questi re li conosciamo solo per nome; di loro, infatti, mancano completamente fonti documentali che ne confermino l'effettiva esistenza. Di altri, invece, abbiamo testi che sembrerebbero confinarli più alla dimensione del mito che in quella della storia. Di altri ancora, invece, possediamo un numero esorbitante di documenti che ne attestano indiscutibilmente l'esistenza. A quest'ultimo gruppo, e primo nel mio immaginario per importanza storica e carisma, è sicuramente il fondatore della dinastia accadica: Sargon il Grande.
Giù il cappello di fronte ad uno dei più grandi sovrani della storia. Per chi non lo conoscesse, siamo di fronte ad un personaggio del calibro di Carlo o Alessandro Magno: una di quelle pietre di paragone con le quale, chiunque abbia mire "imperiali", deve fare i conti.
Visse a cavallo tra il 24° e il 23° secolo a.C. e diede avvio ad una delle più significative dinastie della storia vicinorientale.
Le sue origini sono leggendarie: figlio di una sacerdotessa entu (sacerdotesse vergini vocate alla cura del dio cittadino) e di padre ignoto(!?), venne abbandonato in fasce sulla acque dell'Eufrate in una cesta di vimini cosparsa di bitume (ricorda qualcosa?). Venne raccolto in seguito da un contadino, Aqqa, descritto come viticoltore o frutticoltore (A.BAL) e da lui cresciuto come un figlio.
La seconda fase della sua ascesa al potere ci è pervenuta in diverse versioni che, pur differendo in alcuni dettagli, concordano nel legarlo alla città nordmesopotamica di Kish. I testi lo indicano come coppiere (una sorta di primo ministro) del re Ur-Zababa il quale, in seguito ad alcuni sogni nefasti, decide di farlo uccidere per scampare ad una sorte infausta. Ovviamente il tentativo fallisce, Ur-Zababa muore o viene sconfitto (i testi non lo chiariscono) e Sargon diviene re di Kish.
Inizia quindi la fase espansionistica: Sargon sottomise tutte le città della bassa Mesopotamia, compresa la potentissima Uruk, guidata dallo storico re Lugalzaggesi (da leggere col la G dura, Lugalzagghesi).
In breve divenne, lui per primo, padrone incontrastato della valle tra i due fiumi. Non contento di ciò, riescì ad allargare il suo controllo, questa volta solo in senso commerciale, a tutta la Siria e l'Anatolia, giungendo a dichiarare di regnare dal "Mare Superiore" (il Mediterraneo) al "Mare Inferiore" (il Golfo Persico).
Fondò una nuova capitale, Akkad, in prossimità delle città di Sippar e Kish, lungo le rive del fiume Eufrate, ma i cui resti non sono ancora stati individuati.
Governò a lungo, pare per 56 anni (una cifra iperbolica, difficile da credere e non confermata da documenti ufficiali) combattendo fino ad età avanzata e reprimendo numerosi tentativi di rivolta.
La definizione ben rappresentativa di "Re della Battaglia" proviene da alcuni passaggi di un testo di tradizione paleobabilonese (19°-18° secolo a.C. e quindi successivo di diversi secoli a Sargon) conosciuto con il titolo in lingua accadica di šar tamkharim (Re della Battaglia), pervenutoci in svariate copie e lingue. Narra di una spedizione militare nei riottosi paesi anatolici per riportarli sotto il controllo commerciale accadico. Sembra che il testo non abbia un'effettiva valenza storica, e che l'impresa, se realmente avvenuta, sia da attribuire all'altra grande personalità della dinastia, Naram-Sin.
Naram-Sin era il nipote di Sargon, e così come quest'ultimo è passato alla storia come il prototipo del sovrano forte, giusto e devoto agli dèi, l'altro divenne sinonimo di re empio, ingiusto e debole. In realtà Naram-Sin non fu secondo all'antenato quanto a successi militari e capacità di governo; commise solo un errore: fu il primo uomo non egiziano della storia a divinizzarsi in vita. Ma questa è un'altra storia...
Ultima curiosità. Quella testa bronzea che si affronta nell'intestazione del blog pare essere il ritratto di un sovrano accadico. Non è ancora stabilito chi sia il personaggio ritratto. Sargon, "il Pio", o Naram-Sin, "il Maledetto"? In alto a sinistra la "Stele della vittoria" di Sargon, rinvenuta a Susa e conservata al Louvre.

lunedì 8 marzo 2010

Eridu: la prima città


Nessuna sacra dimora, dimora degli dèi in un luogo sacro era stata eretta, nessun giunco era spuntato, nessun albero era stato creato, nessun mattone era stato posto, nessuno stampo per mattoni costruito, nessuna casa era stata eretta, nessuna città era stata costruita....


Il passo precedente è tratto da un mito delle origini. Descrive un mondo primordiale, privo di ogni segno di civiltà, di ogni elemento riconducibile al mondo per come lo intendevano i sumeri. E’ da questo scenario primigenio che l’autore del mito colloca la fondazione di Eridu. La città di Eridu nell’immaginario sumerico rappresentava la prima città, il primo luogo in cui gli dèi del cielo posero una loro abitazione su questa terra.

Eridu è stata rintracciata tra le rovine di Tell Abu Shahrein, a meno di trenta chilometri dal sito di Ur, in un’area che ai tempi della fondazione risultava molto vicina alle acque del golfo. I depositi nei secoli del fiume Eufrate hanno allontanato di molto le rovine dal mare e anche il fiume si è allontanato, cambiando il suo corso.

All’epoca Eridu era una città unica nel suo genere, posta al confluire di tre ecosistemi: le acque dolci dell’area alluvionale del fiume, le acque salate del mare, e una vasta depressione paludosa, spesso invasa dalle acque, ai margini della quale venne fondato il centro urbano.

Fulcro del centro urbano era il tempio cittadino (E.abzu o E.engura), residenza del dio locale Enki, una delle massime personalità del pantheon sumerico. Era posto su un collina rialzata, nel mezzo dell’area depressa e, in seguito alle numerosissime ricostruzioni nel corso dei secoli, venne a trovarsi in una posizione dominante rispetto al resto dell’abitato.

L’immagine che si presentava agli occhi dei pellegrini in visita al santuario era quello di una montagna sospesa sulle acque. Nell’immaginario sumerico, l'intero creato fu originato dell’incontro di Abzu e Tiamat, le personificazioni delle acque dolci e salate. E’ chiaro che la visione di una città circondata dalle acque della palude, rese salmastre dalla vicinanza del mare, rappresentava il luogo perfetto in cui gli dèi avrebbero potuto collocare la loro prima e più antica residenza in questo mondo.

Eridu non ebbe mai l’importanza politica di altri centri come la vicina Ur, Uruk o Kish, tuttavia il suo prestigio, la sua importanza culturale rimase intatta per secoli anche ben oltre il periodo sumerico. Nella foto una ricostruzione della veduta del tempio di Eridu.

domenica 7 marzo 2010

Il codice di Hammurabi


Iniziamo la rassegna di "pillole" vicinorientali con qualcosa di noto a chiunque. Sicuramente ognuno di noi a scuola avrà avuto modo di imbattersi nel celebre Codice di Hammurabi e, altrettanto sicuramente, gli sarà stato presentato come "il primo codice di leggi dell'umanità". Si tratta di una definizione accettabile fintanto che rimaniamo in un ambito scolastico, preoccupato principalmente di metter sul tappeto i primi importantissimi passi dell'umanità verso la civilizzazione (agricoltura intensiva, urbanizzazione, scrittura e leggi). In realtà dovremmo aspettare il diritto romano prima di poter parlare di un corpus sistematico di leggi che descrivano preventivamente reati e conseguenti pene da applicare.
Tutti i "codici" mesopotamici, compreso quello di Hammurabi, hanno un valore dimostrativo, intendono cioè evidenziare la capacità del sovrano di governare il territorio con giustizia a garanzia di tutti. Nell'immagine del post è ritratta la sommità della stele conservata al Louvre: si vede il sovrano Hammurabi (sulla sinistra) rendere omaggio al dio sole Ea (sulla destra), divinità tutelare della giustizia.
Di fatto il codice di Hammurabi consiste in un elenco di quasi trecento sentenze poste sotto forma di norma generica. Summa awilum ("Se un uomo") è la formula introduttiva di molti degli "articoli" del codice che opera una distinzione sociale tra awilum (uomini liberi), muskenum (dipendenti dell'apparato statale e quindi semiliberi) e wardum (schiavi).
Dal codice emerge una società a prima vista cruenta, caratterizzata dalla famosa legge del taglione, "occhio per occhio, dente per dente", una forma regolata e quantificata della vendetta personale. Tuttavia la maggior parte degli studiosi mette in dubbio l'effettiva applicazione delle pene ritenendole più che altro una forma di deterrente.
Abbiamo detto che il Codice in realtà non è un codice; adesso sfatiamo un'altra leggenda: nel suo genere, il codice di Hammurabi non è stato nemmeno il primo. Ur-Nammu, o forse suo figlio Shulgi (come sostengono alcuni filologi), compilò una simile raccolta di leggi quasi tre secoli prima di Hammurabi, il cosiddetto Codice di Ur-Nammu.

sabato 6 marzo 2010

Oriente Antico: un amore sempre vivo

Ho dedicato otto bellissimi anni della mia vita all'orientalistica. Anni di studio piacevolissimo, di emozioni e suggestioni. Difficile spiegare cosa si prova quando si traduce un testo in cuneiforme a chi non ha mai avuto l'occasione di sperimentarlo di persona. Svelare un messaggio vecchio di millenni è come fare un viaggio nel tempo. Oggi il Vicino Oriente Antico, come viene definito da chi se ne occupa per lavoro, è per me solo un bellissimo ricordo. Ma ancora oggi, ogni volta che leggo un articolo, vedo un filmato o scorgo un libro su una bancarella dell'usato che parla di quest'argomento, vengo colto da un sentimento fortissimo di nostalgia.
Anche se oggi mi occupo di altro e solo occasionalmente mi imbatto in Sumeri e Assiri, sento che questo mondo ancora mi appartiene, e io appartengo a lui. Sono e resterò sempre un orientalista. Perso quasi completamente ogni contatto con l'ambiente universitario, ho deciso di creare una spazio mio che mi permetta di far conoscere, almeno a qualcuno, quanto bello, affascinante e profondamente "nostro" sia il mondo mesopotamico.
Il titolo del blog? Volevo un nome facile da ricordare e soprattutto che esprimesse chiaramente la finalità del blog. In un banale gioco di parole ritroviamo un riferimento all'oriente e un altro alla stampa, intesa non in senso giornalistico ma come divulgazione di informazioni.
Capiteranno anche post "fuori tema", ma essenzialmente il blog ha l'obiettivo di somministrare pillole di Vicino Oriente Antico sotto forma di curiosità e approfondimenti.
Non mi resta che dare il benvenuto a tutti coloro che vorranno venire qua a curiosare di tanto in tanto e augurare a me buon lavoro.