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martedì 15 novembre 2011

Anzu e Ninurta


Il vasto corpus di testi mitologici della letteratura sumerica comprende il cosiddetto Mito di Anzu, appartenente al Ciclo di Ninurta. Ninurta, divinità guerriera, figlio della coppia divina Enlil e Ninlil e con loro oggetto di culto presso la città santuario di Nippur, era una della divinità più celebrate del pantheon sumerico e protagonista di numerosi miti che ne esaltavano il carattere guerriero. In seguito ad una serie di processi sincretici, Ninurta è stato associato a numerose divinità locali che con lui condividevano attributi e caratteristiche; la più famosa di queste è senz'altro Ningirsu, dio supremo della città di Lagash, reso celebre dai resoconti di Gudea in occasione della ricostruzione del tempio cittadino Eninnu. Il mito di Anzu (probabilmente la lettura corretta del nesso AN.IM.DUGUD è dImdugud, laddove AN deve essere inteso come il determinativo di nomi divini) è conservato in due versioni che differiscono principalmente nei nomi dei due protagonisti (Ninigirsu nella prima e più antica di età sumerica, Ninurta nella seconda di epoca paleobabilonese). Ciò che colpisce nel mito di Anzu (lettura attestabile a partire dal II millenio, in cui il segno AN è interpretato come fonetico e il nesso IM+DUGUD come Zux) è la natura stessa dell'antagonista. Anzu, creatura ibrida, è descritta come un'enorme aquila leontocefala capace di generare tempeste e altri disastri atmosferici con il semplice battere delle sue ali. Secondo alcune teorie l'uccello Imdugud (Im = vento/tempesta, Dugud = pesante) è la rappresentazione della tempesta di grandine, l'evento atmosferico più temuto in una società agricola. Inoltre, nello stesso mito, è presente l'affermazione secondo cui Anzu sarebbe figlio di Anu, il dio padre delle divinità mesopotamiche. La natura divina di questa creatura è avvalorata dall'uso del determinativo AN che identifica inequivocabilmente personalità divine. Ciò che maggiormente sorprende è il fatto che, sino ad oggi, non sono attestate divinità che presentino tratti così spiccatamente zoomorfi quali quelli di Imdugud. Il carattere antropomorfo delle divinità vicinorientali era un dato talmente consolidato che la succesiva lettura Anzu, attestata in piena età classica babilonese, si spiega facilmente con la necessità di superare un'incongruenza che allora era sentita come inaccettabile. Il fulcro del mito consiste nel furto, da parte di Anzu, delle Tavolette del destino, oggetti appartenenti ad Enlil in quanto autorità suprema degli déi. Si tratta di oggetti potentissimi, capaci di determinare il destino del cosmo. La forza selvaggia di Anzu, unita al potere conferitogli dagli oggetti rubati, lo rendono invincibile e nessuna divinità sembra in grado di opporglisi. Nessuno tranne Ninurta. Il giovane dio, dotato di armi eccezionali, si avvia alla battaglia e, dopo alcune iniziali difficoltà, riesce a sopraffare il mostruoso Anzu e a restituire le Tavolette del destino al legittimo proprietario. Il mito si inquadra chiaramente nell'ampio solco di racconti mitici in cui le forze del caos, qui rappresentate da Anzu, vengono contrastate e domate da un potere supremo che garantisce e tutela l'ordine cosmico. Tuttavia il racconto si presta ad una seconda lettura, ovvero il rapporto tra uomo e bestia che vede la seconda soccombere dinanzi al primo. Ninurta, rappresentato come un giovane forte e nel pieno vigore dei suoi anni, è il simbolo stesso della speranza nel domani, della capacità dell'uomo di far fronte alle difficoltà che il futuro, inevitabilmente, riserva. Se è vero, come taluni sostengono, che Imdugud/Anzu rappresenti un step evolutivo di Ninurta precedente al processo di antropomorfizzazione che ha portato l'uomo a creare le entità divine "a sua immagine e somiglianza", è possibile riconoscere nel mito un inconsapevole riferimento alla lotta dell'uomo contro la sua natura animalesca e, contemporaneamente, alla sua definitiva affermazione sugli elementi della natura.

mercoledì 24 agosto 2011

L'Epopea di Gilgamesh 2. I poemetti sumerici

Ad oltre un anno di distanza dal primo e unico post dedicato a quest'opera, mi sono finalmente deciso a riprendere le fila del discorso aggiungendo un nuovo capitolo alla serie. Il post di oggi, come da titolo, sarà dedicato alla genesi dell'opera, ovvero al lungo percorso evolutivo che ha condotto sino alla versione "classica" in 12 tavolette di epoca mediobabilonese.
I primi racconti incentrati sulla figura di Gilgamesh risalgono al periodo sumerico, presumibilmente all'arco di tempo compreso tra la III dinastia di Ur (XXI secolo a.C, ma taluni arretrano la datazione sino all'epoca accadica) e le dinastie di Isin e Larsa (comprese tra il XX e il XVIII secolo). I cosiddetti "poemetti sumerici" sono narrazioni molto brevi (tra le 100 e le 300 righe di testo) che raccontano le gesta del sovrano di Uruk. Ogni poemetto era autoconclusivo, ovvero scollegato dagli altri e si limitava a raccontare una singola avventura compiuta da Gilgamesh. Al momento ne sono note 5, ma non è possibile escludere che ne esistessero altre, né che in futuro gli scavi possano portarne alla luce di nuove:
  • Gilgamesh e Agga, il re di Kish: Nel testo viene narrata la guerra che il sovrano di Kish, Agga, mosse contro la città di Uruk, rea di aver disobbedito alla sua presunta autorità. La guerra si risolve con la sola apparizione di Gilgamesh dinanzi alle truppe nemiche, ormai giunte sotto le mura di Uruk: la semplice aurea divina del re di Uruk ebbe l'effetto di annichilire lo spirito combattivo dell'esercito di Kish.
  • Gilgamesh e Khubaba: Il poemetto, riportato anche nell'epopea classica, racconta l'episodio della spedizione di Gilgamesh contro Khubaba. Grazie all'astuzia (o forse sarebbe meglio dire l'inganno), Gilgamesh riesce a sottrarre a Khubaba i 7 ME (parola non facilmente traducibile, suggerirei un generico "poteri") donategli dal dio Enlil in persona, che lo rendevano invincibile. Il racconto si conclude con la morte del mostro per mano del servo Enkidu.
  • Gilgamesh e il Toro celeste: In questo racconto Gilgamesh si vede costretto ad affrontare il terribile Toro Celeste, una creatura inviata dalla dea cittadina Inanna come punizione per aver prevaricato l'autorità sacerdotale, sulla quale, per tradizionale separazione di ambiti, non aveva competenza. Il re con l'aiuto del fedele Enkidu riesce a sopraffare il Toro che stava devastando l'intero territorio di Uruk. La dea Inanna, conscia della sconfitta, prorompe in un pianto disperato e riceve per questo gli insulti sacrileghi di Enkidu.
  • Gilgamesh, Enkidu e gli Inferi: La dea Inanna raccoglie tra i flutti del mare il legno sacro khalub e lo pianta nel giardino del suo tempio affinché da esso nasca una grande quercia dalla quale ricavare il legno per realizzare un trono e un letto. Purtroppo l'albero verrà infestato da tre creature maligne e la dea, disperata, chiederà l'intervento di Gilgamesh per scacciare gli intrusi. Ovviamente il re di Uruk riuscirà nell'impresa e riceverà in premio dalla dea i pukku e i mekku, ovvero tamburo e bacchette. Con questi strumenti Gilgamesh ossessionerà i suoi sudditi costringendoli ad una danza forsennata e interminabile. Pertanto, per sottrarre i sudditi alla tortura, gli dèi inviano magicamente gli strumenti negli Inferi. Il povero Enkidu si offrirà per andarli a recuperare, ma non avendo osservato le indicazioni di Gilgamesh, non riuscirà a fare ritorno.
  • La morte di Gilgamesh: La parte narrativa in questo poemetto è decisamente sacrificata in favore delle lamentazioni per la dipartita dell'eroe. Gilgamesh riceve in sogno la notizia che, nonostante la sua natura semidivina, sarebbe morto come tutti gli altri uomini. Gilgamesh continuerà ad esercitare la sua regalità anche negli Inferi in qualità di giudice delle anime dei defunti. Egli riceve anche indicazioni sulle modalità della sua sepoltura: il corso del fiume Eufrate dovrà essere deviato e nel vecchio alveo dovrà essere scavato il suo ultimo giaciglio; poi il fiume sarà riportato nel vecchio letto, a ricoprire la tomba del sovrano.
In alto l'immagine di un impronta di sigillo in cui è rappresentata l'uccisione di Khubaba da parte di Gilgamesh (a sinistra) ed Enkidu.

domenica 22 maggio 2011

Enlil ed Enki: due fratelli molto diversi


La religiosità sumerica per molti aspetti può essere paragonata a quella greca. Alcuni grecisti potranno storcere il naso o addirittura stracciarsi le vesti se arrivo a dire che il ricco universo mitologico greco affonda le sue radici proprio nel vicinoriente. Del resto questa affermazione non dovrebbe stupire eccessivamente, è noto quanto le civiltà antecedenti abbiano sempre esercitato un potere di fascinazione e suscitato un desiderio di emulazione nelle successive; non sempre invece alle prime è stato riservato il giusto merito e la dovuta considerazione, spesso nemmeno dagli storici moderni. Ma vediamo quali potrebbero essere questi parallelismi. In primo luogo l'organizzazione geopolitica sumera era fondata - almeno in epoca classica - sul modello della città stato. Esattamente come sarebbe successo duemila anni più tardi in Grecia, le città sumere erano amministrativamente indipendenti le une dalle altre e i loro governi si reggevano su due pilastri principali, il re da un lato e dall'altro l'autorità religiosa rappresentata dalla casta sacerdotale del dio cittadino. Nonostante questa reciproca indipendenza - che spesso assumeva i caratteri dell'aperta rivalità commerciale o addirittura della guerra - le città sumere erano consapevoli di appartenere tutte ad uno stesso bacino culturale, di parlare una stessa lingua, di saperla rappresentare in forma scritta in un unico (o almeno con pochissime varianti) codice grafico e soprattutto di condividere una stessa concezione del soprannaturale. Le divinità sumere, sebbene distribuite nei vari santuari cittadini, avevano una dimensione sovracittadina ed erano ugualmente venerate e temute in tutta la nazione sumera. Gli archivi cuneiformi hanno restituito uno spaccato molto chiaro della complessità delle credenze sumeriche anche e soprattutto attraverso un repertorio mitografico straordinariamente suggestivo. Attenti esegeti, partendo da questi testi, sono riusciti a ricavare moltissime informazioni sull'origine di molte credenze, sul ruolo delle singole divinità e sulla stessa concezione del creato.

L'immaginario cosmico sumerico concepiva un universo costituito dall'unione di tre mondi indipendenti: la terra (intesa come sottosuolo), l'atmosfera (intesa come una fascia compresa tra cielo e terra, quella in cui vivono gli uomini) e il cielo. La triade posta a capo dei tre regni era formata da un padre - Anu, somma divinità del pantheon - e dai figli Enli ed Enki. L'etimologia dei nomi è illuminante circa la funzione delle tre divinità: Anu, padre degli dei, conserva, nel nome e nella grafia, la propria specificità dal momento che il segno che lo rappresenta (AN), una stella stilizzata, può assumere sia il significato di dio (in senso generico) sia quello di cielo. Enli, figlio primogenito, il cui nome è costituito dai segni EN (= "signore") e LIL (= "vento"), era il dio dell'atmosfera e sovraintendeva al mondo dei viventi, di quanto nasce, cresce e muore sulla terra. Enki (EN = "signore" e KI = "terra"), il secondogenito, era il dio del sottosuolo, signore dell'abisso sotterraneo nel quale erano conservate gelosamente le acque dolci necessarie alla sopravvivenza dell'agricoltura mesopotamica.

La funzione di Anu all'interno della concezione religiosa sumerica sembra essere più onorifica e meno attiva rispetto a quella dei due figli. Il potere effettivo, capace di determinare le sorti dell'umanità, appare essere una questione a due nella quale spesso l'autorità politica del primogenito, vero capo degli dei, è messa in discussione dal fratello più piccolo.

Alcuni tra i miti più importanti e fortunati della letteratura mesopotamica si basano sull'antagonismo dei due fratelli e soprattutto sulla diversa sensibilità nei confronti dell'uomo. A differenza del greco Ade, Enki rappresenta una figura positiva e non legata al mondo dell'oltretomba. Come anticipato precedentemente, Enki sovraintendeva all'abisso sotterraneo (ABZU) dal quale si credeva provenissero le acque delle sorgenti e dei fiumi, tanto indispensabili alla sopravvivenza del complesso sistema di irrigazione mesopotamico; l'indispensabilità delle acque fluviali - e conseguentemente la devozione per il dio che le dispensava - risulta tanto più comprensibile se si pensa che, in quelle terre, le precipitazioni naturali erano scarse o, al contrario, violente e dannose all'agricoltura. Non a caso Enlil, il dio atmosferico, era, secondo il mito, il responsabile del diluvio universale che portò l'umanità all'annientamento. E proprio il mito del diluvio universale nella sua più antica e originale versione, quella sumero-accadica, restituisce l'immagine più chiara del rapporto tra i due fratelli. Come si è detto, Enlil, infastidito dall'umanità e pentito della sua creazione, decide di annientarla con un diluvio e mette a parte della sua decisione l'intero comunità divina. Nessuno osa contrastare la volontà del grande Enlil se non il fratello minore, l'astuto Enki. Enki non riesce ad impedire al fratello di scatenare la sua furia sull'umanità ma, astutamente, contatta un umano, Atramhasis (Utnapistim o Ziusudra secondo altre tradizioni), il Noé biblico: lo avverte del pericolo imminente e lo guida alla costruzione di un'imbarcazione che metta in salvo la sua famiglia e i suoi animali. Al settimo giorno il diluvio cessa, e le preghiere e le offerte di Atramhasis, giungono sino alle orecchie di Enlil che, solo a quel punto, si accorge di non essere riuscito nell'impresa di sterminare l'intera umanità. Enlil è consapevole che solo Enki può avergli disobbedito, ma il fratello, tutt'altro che intimidito, lo sfida apertamente affermando la propria volontà di preservare la vita sulla terra. Alla fine i due giungono ad un accordo e l'umanità può nuovamente prosperare sebbene con maggiori limitazioni. Dal mito traspare bene il diverso ruolo e la diversa considerazione che i due fratelli avevano presso la comunità sumerica e risulta abbastanza evidente come Enlil, a differenza di Enki, fosse più temuto che amato.